I popoli venuti dal mare

Parte 2a

Distanza complessiva da percorrere

circa 435 Km

Tempo medio di percorrenza

circa 9 ore

Percorsi a piedi

 

circa 30 minuti

Percorsi in traghetto

circa  90 minuti

Tempi di sosta e visita

circa 8 ore

Durata complessiva dell'itinerario

Due giornate

 

 

6. Trinità d'Agultu e Vignola: Torre spagnola dell'Isola Rossa.

7. Santa Teresa Gallura: Cave romane di Capo Testa.

8. La Maddalena: Museo archeologico navale Nino Lamboglia.

9. Olbia: Mura puniche.

10. Olbia: Fattoria romana di S'Imbalconadu.

11. Ozieri: Pont’Ezzu.

12. Mores-Ittireddu: Pont’Ezzu.                                                           

13. Alghero: Necropoli di Santu Pedru.

Parte 1a

 

 

 

6. Trinità d'Agultu e Vignola: Torre spagnola dell'Isola Rossa.

 

Da un popolo conquistatore ad un altro, ci spostiamo adesso con un balzo in avanti di oltre un millennio lungo la strada costiera, da Porto Torres a Castelsardo e di qui, lam­bendo i lunghi arenili di Valledoria e Badesi, fino al Borgo dell'Isola Ros­sa, per visitare una delle più robuste testimonianze del dominio politico-militare spagnolo, esercitato anche mediante il sistematico controllo dei litorali. Qui, in verità, nel picco­lo villaggio di pescatori sorto fra le belle rocce di granito porfìrico dai colori rossastri, di fronte alla picco­la Isola Rossa che dista non più di 400 metri dalla linea di costa, pos­siamo trovare un'ulteriore testimo­nianza delle fitte relazioni, questa volta pacifiche, fra la Sardegna e l'e­sterno: il villaggio fu infatti fonda­to, fra la fine del XIX secolo e l'ini­zio del XX, da famiglie di pescatori ponzesi che già da vari decenni ave­vano preso a frequentare stagional­mente questo pescosissimo tratto di mare, rinomato, oltre che per le aragoste e per i pesci pregiati, per l'ab­bondanza di corallo. Ci troviamo or­mai in Gallura, e tutta la Gallura co­stiera ha conosciuto, dalla fine del Medioevo fino a tempi molto recenti, un destino di spopolamento e di abbandono dovuto principalmente a due cause: la malaria e le incursioni piratesche. Questo spiega, da una parte, l'assenza pressoché totale di insediamenti urbani storici sul lito­rale (nei 65 chilometri da Castelsar­do a Santa Teresa è questo il solo che s'incontra), dall'altra il fatto che le attività di navigazione e di pesca, completamente dismesse dai sardi, siano diventate terreno di conquista di genti venute ancora una volta da fuori, principalmente liguri e, ap­punto, ponzesi.

Ma questo spiega anche la presenza, in questo tratto di costa solitario e selvaggio, battu­to dai venti, di una torre di tale im­ponenza architettonica, per non di­re monumentale. Di torri aragonesi e spagnole è punteggiato l'intero litorale della Sardegna e un itinerario che volesse toccarle tutte, l'una do­po l'altra, risulterebbe lungo e fati­coso ma certamente spettacolare come pochi, perché permetterebbe di prendere visione di ogni centimetro di costa, di ogni scoglio e di ogni increspatura del mare. Infatti questo sistema di torri (integrato da quelle preesistenti, di costruzione genovese e pisana) era concepito in modo che l'angolo ottico di ciascuna si sovrapponesse in parte a quello delle due contigue, con le quali del resto la torre era in diretta relazione visiva. Cosi non c'era tratto di mare che potesse sottrarsi al controllo (come accade invece oggi in certe zone d'ombra dei radar) e la guardia che avvistava una nave sospetta poteva comunicare la notizia con un semplice gesto alle due guardie del­le torri vicine, e ciascuna di queste due ad un'altra, con una fulminea propagazione dell'allarme. Questa torre dell'Isola Rossa, in particolare, appare più maestosa e di architettu­ra più accurata di altre perché il pic­colo porto naturale del quale sta a vedetta aveva un'importanza strate­gica non ordinaria: era infatti (ed è tuttora) uno dei pochi approdi age­voli su un arco di svariate decine di miglia e per questa ragione era il punto di sbarco prediletto da pirati e contrabbandieri. Soprattutto con­tro le attività di questi ultimi, che prosperavano sui traffici dalla vicina Corsica, fu eretta e fortificata la tor­re: a difesa, si potrebbe ben dire, più che del territorio sardo, dell'era­rio spagnolo.

 

7. Santa Teresa Gallura: Cave romane di Capo Testa.

 

Torniamo adesso ai Romani e, prose­guendo per la strada Litoranea il cui tracciato corrisponde in gran parte a quello della via da Turris a Olbia di età imperiale, ci trasferiamo dall'I­sola Rossa a Santa Teresa, il cui sito potrebbe forse coincidere, come già si è detto, con quello della romana Tibula.

In ogni caso i Romani ebbe­ro insediamenti e interessi in questa zona, in particolar modo a Capo Te­sta, spettacolare promontorio dalla forma tondeggiante collegato alla terraferma da un istmo sottile, e ce­lebre per le sue biancheggianti roc­ce di granito, ora svettanti in aspri pinnacoli aguzzi ora invece ammas­sate l'una all'altra in lisce sculture marmoree. Fu appunto questo ma­gnifico marmo ad attrarre a Capo Te­sta i Romani, che vi ebbero impor­tanti cave di granito, certamente attive per molti secoli.

Nella parte nord-occidentale del promontorio sono ancora ben visibili i resti di queste antiche cave. Ciò che affiora dall'acqua delle numerose calette documenta una raffinata tecnica di estrazione e di lavorazione della pietra.

 

Santa Teresa Gallura: le cave romane di Capo Testa

 

 

Si possono vedere grandi blocchi appena staccati, colonne semilavorate ed anche elementi ar­chitettonici già lavorati sul posto prima di essere esportati. In località Li Petri Taddati (cioè "le pietre ta­gliate") è documentato su una roc­cia il procedimento adottato per l'e­strazione: lungo la linea di frattura della pietra si praticavano piccoli fori nei quali venivano inseriti cunei di metallo o di legno. Le cave furo­no riutilizzate in età medievale, nel periodo della dominazione pisana, e fornirono materiali per la costruzio­ne del Battistero e del Duomo di Pi­sa. La leggenda vuole che il granito di Capo Testa sia servito anche, in età romana, per le colonne del Pantheon.

Si tratta appunto di una leggenda, forse falsa, ma sicuramen­te non priva di fondamento: il mar­mo estratto qui veniva trasportato a Roma e si trasformò senza dubbio in palazzi, terme, templi. Scogli che, dall'altra parte del mare, diventavano edifìci.

 

8. La Maddalena: Museo archeologico navale Nino Lamboglia.

 

Sempre sulle tracce dei Romani, la­sciamo Santa Teresa per la vicina Palau e di qui ci imbarchiamo sul tra­ghetto che, solcando uno dei tratti di mare più belli del Mediterraneo, ci conduce all'Isola della Maddalena. Un mare stupendo, quello dell'arci­pelago, ma anche insidioso: per la forza e il capriccio dei venti, per l'ardua navigabilità degli stretti ca­nali che separano un'isola dall'altra, per le innumerevoli secche di cui è disseminato. Non si contano i nau­fragi che sono avvenuti in queste acque dalla trasparenza di vetro. Di uno di questi naufragi reca una te­stimonianza davvero suggestiva il museo intitolato a Nino Lamboglia, uno dei pionieri dell'archeologia su­bacquea nel nostro paese.

 

La Maddalena: in una sala del Museo archeologico navale Nino Lamboglia è ricostruito lo stivaggio delle anfore vinarie nella nave da carico romana naufragata al largo dell'isola di Spargi nel II secolo a.C.

 

 

Il museo è infatti incentrato sul relitto di una nave romana naufragata verso il 120 a.C. presso risola di Spargi e recu­perato una ventina d'anni fa. Nella prima sala è stato ricostruito un settore dello scafo, al cui interno sono state disposte, secondo il me­todo di stivaggio dei Romani, le nu­merose anfore vinarie recuperate. Nella seconda sala sono esposti gli oggetti ritrovati a bordo, tra cui uno scandaglio e cinque ancore di piom­bo. Dunque già in epoca tardo-repubblicana, quando la Sardegna era sotto il pieno controllo romano da circa un secolo (ma con focolai di rivolta nell'interno che si faticò pa­recchio a domare), il traffico com­merciale tra l'isola e il continente era già intenso e, dobbiamo presu­mere, regolare. La nave trasportava in Sardegna vino prodotto nella pe­nisola, come dimostrano le anfore vinarie di produzione italica. L'isola invece esportava, fra le derrate agri­cole, prevalentemente grano: tutte le terre più fertili furono sistemati­camente organizzate dai colonizzatori per questa produzione intensi­va. D'altro canto in Sardegna i Ro­mani avevano trovato una viticoltu­ra già diffusa e ben organizzata dai loro predecessori: alcuni studiosi ri­tengono che i Fenici, tra i massimi enologi dell'antichità, avessero im­piantato vigneti e importato vitigni (fra i quali probabilmente la Vernac­cia e il Nuragus) nelle zone retro­stanti i loro insediamenti costieri, cioè soprattutto nella parte sud-oc­cidentale dell'isola, e i Cartaginesi avevano poi valorizzato l'esistente ed esteso la produzione ad altre re­gioni. I Romani, da quegli abili e lungimiranti amministratori ecume­nici che furono sempre, sfruttarono presumibimente, col tempo, anche questa risorsa preziosa: ma senza eccesso, badando bene ad evitare sovraproduzioni che avrebbero pro­vocato contraccolpi sul mercato continentale. Proprio la Vernaccia, a dispetto delle sue origini più anti­che, serba nel suo nome una traccia dell'apprezzamento romano: deriva infatti con ogni probabilità da vernaccia. Come dire: prodotto Locale.

 

9. Olbia: Mura puniche.

 

Lasciamo La Maddalena e, fatto ri­torno a Palau, raggiungiamo Olbia (strada statale 125, passando per Arzachena) per fare la conoscenza dell'ultimo grande popolo forestiero di cui non abbiamo ancora indivi­duato le tracce. Olbia, a dispetto dell'etimologia probabilmente greca del nome (Olbìa: la felice) e della tradizione che la vuole fondata dai Focesi, cioè dai coloni greci dell'at­tuale Marsiglia, è una città portuale che deve la sua originaria struttura urbana alla fondazione punica nel IV secolo a.C. (anche se va ricordato che recenti scavi hanno restituito ceramiche greco-orientali del VI se­colo). I Cartaginesi a quell'epoca controllavano l'intera isola e la mi­naccia romana era ancora ben lonta­na dal rendersi manifesta (la con­quista romana avvenne in effetti dopo oltre un secolo, nel 238 a.C.). Tuttavia l'insediamento urbano di Olbia, al di là dell'ottima posizione del porto e della sua magnifica protezione naturale, aveva certamente, oltre alle finalità mercantili, scopi strategici e di controllo territoriale su una zona fino ad allora scarsa­mente presidiata. Della città punica di Olbia ci sono noti numerosi resti dell'abitato, delle necropoli, delle installazioni portuali e, caso raro in Sardegna, della cinta muraria, della quale è stato possibile ipotizzare il circuito originario. Purtroppo quasi nulla di questi resti è attualmente visibile. Della cinta muraria si pos­sono osservare, tra via Torino e via Acquedotto, in una piccola area ver­de, due cortine di grandi blocchi bu­gnati di granito perfettamente squadrati, che definiscono un am­biente a pianta rettangolare separa­to all'interno in vani minori da trat­ti di muratura di pietre più piccole. L'apertura fra le due cortine corri­sponde a una delle antiche porte della città. A pochi metri di distan­za, in direzione nord, sono visibili, attraverso il cancello di una pro­prietà privata, gli imponenti resti granitici di una delle torri a pianta rettangolare della cinta muraria, in opera quadrata. Il tratto di mura che si conserva in via Porto Romano, al­l'interno della farmacia Lupacciolu, è invece di età romana imperiale: ma sotto la pavimentazione dell'a­diacente piazza Regina Margherita sono stati scavati i resti di una ci­sterna punica. Di particolare interesse sono le rovine nel giardino pri­vato della Villa Tamponi, nelle vici­nanze del porto: la muratura, ad an­damento rettilineo, è costituita da blocchi squadrati messi in opera a secco. In epoca relativamente re­cente, nel prospetto della muratura furono cementati numerosi fram­menti ceramici di età punica e ro­mana, certo provenienti dal terreno circostante. Un ultimo tratto di mu­ra si conserva, in parte sotto il livel­lo dell'acqua, presso il Porto Vec­chio, in località Su Cuguttu: le due strutture visibili, a pianta quadran­golare, sono forse i resti di due torri del circuito.

 

10. Olbia: Fattoria romana di S'Imbalconadu.

 

Dopo la conquista romana, la città di Olbia prosperò per svariati secoli non soltanto grazie ai traffici del porto, ma anche grazie alla fertilità della sua campagna, subito alle spalle della costa. Qui come in tutte le pianure piccole e grandi dell'isola (nel Nord Sardegna la Nurra, il Cam­po di Ozieri, il Campu Giavesu, vaste aree della Romangia e dell'Anglona) i Romani organizzarono un'agricol­tura intensiva mirante soprattutto alla produzione di grano e, nelle zo­ne collinari, di vino. Grazie a un sa­piente governo delle acque, in effet­ti, queste regioni, fertili e irrigue ma nella maggior parte dei casi malariche, conobbero nei secoli della dominazione romana una prosperità e una popolosità inusitate: basti pensare che Olbia e tutto il suo ter­ritorio, immediatamente dopo la ca­duta dell'impero, andarono incontro a uno spopolamento totale, destina­to a durare per oltre un millennio. In linea generale non è azzardato affermare che tutte le terre malari-che della Sardegna, prima delle grandi bonifiche del XX secolo, furo­no coltivate e rese abitabili in modo stabile esclusivamente sotto il do­minio romano. Qui in particolare, nella zona di Olbia, si insediarono in età imperiale i grandi latifondi delle più potenti famiglie di Roma: segno esplicito più di ogni altro dell'eleva­ta redditività delle terre. Un esem­pio piuttosto precoce di fattoria romana, risalente al II secolo a.C. (dunque ancora all'età repubblica­na), è venuto recentemente alla lu­ce pochi chilometri a sud di Olbia, lungo la strada provinciale per Loiri: è visibile (e visitabile) sul margine destro della strada, subito dopo il ponte sul fiume Padrogiano. Il com­plesso produttivo, ubicato sulla sommità di una lieve altura, a 12 metri sul livello del mare, è realizza­to in pietre granitiche legate con malta di fango, sulle quali si impo­stano gli alzati in mattoni. Della struttura, la cui lunghezza origina­ria era di oltre 30 metri, si conserva un'ampia corte che racchiude un isolato di quasi 9 metri di lato, for­se una casa-torre di almeno due pia­ni che ospitava la dimora del con­duttore della fattoria e della sua fa­miglia, oltre a numerosi altri am­bienti destinati alle attività produt­tive, con vasche e cisterne. In alcu­ni vani sono stati identificati gli im­pianti per la panificazione. Nella te­nuta veniva probabilmente praticata la coltura della vite.

 

11. Ozieri: Pont’Ezzu.

 

Se, dalla provinciale per Loiri, risa­liamo qualche chilometro a nord per imboccare la statale 199 e ne per­corriamo un lungo tratto in direzio­ne di Oschiri e Ozieri, potremo dire di aver seguito per alcune decine di miglia il tracciato di un'altra strada romana di vitale importanza. Si è già visto infatti, all'inizio del nostro itinerario, che la principale arteria del sistema viario romano, la "a Turre Karales", si snodava su un traccia­to in gran parte simile a quello della Carlo Felice: da questa strada, nei pressi di Mores (probabilmente coincidente con la romana Hafa), più o meno nello stesso punto in cui prende origine l'attuale statale 128bis, si staccava anche allora la diramazione per Olbia che, tagliando da sud-ovest a nord-est il Campo di Chilivani, scavalcava il Rio Mannu circa tre chilometri a nord-ovest di Ozieri per puntare quindi quasi in li­nea retta verso Olbia lungo un per­corso assai simile a quello della sta­tale 199 di oggi.

Questa strada, dunque, ci porta senza alcuna diffi­coltà nelle immediate vicinanze del­la prossima tappa dell'itinerario, co­stituita appunto dal monumentale ponte romano che superava il Rio Mannu quasi al centro della piana di Ozieri: per raggiungerlo non dovre­mo far altro che seguire la statale 199 fino alla sua confluenza, ormai in vista di Ozieri, nella statale 132, svoltare a destra entrando nella fra­zione di San Nicola e, di qui, segui­re le indicazioni che in poche centi­naia di metri ci guidano al Pont'Ezzu.

 

 

Il Pont’Ezzu di Ozieri

 

 

Questo nome, Pont'Ezzu, che si­gnifica semplicemente "ponte vecchio” connota con estrema sobrietà la maggior parte dei ponti d'impian­to romano esistenti nel Nord Sarde­gna: uno, non lontano di qui, fra Mores e Ittireddu, sarà la prossima tappa del nostro itinerario; un altro (vedi Itinerario 19) scavalca il Tirso proprio al confine fra le Province di Sassari e Nuoro; di un terzo (vedi Itinerario 12) restano i ruderi nei pressi del Coghinas in territorio di Bortigiadas. Quello di Ozieri è, fra tutti, di gran lunga il più imponente e monumentale. Costruito in età im­periale (I-III secolo d.C.), testimo­nia della centralità di questa pianu­ra nell'economia e nei traffici com­merciali del tempo. Il ponte, con paramento murario in opera quadra­ta in calcare, presenta sei arcate con raggio di dimensione decrescen­te a partire da quella centrale. La sua lunghezza totale è di 80 metri.

 

12. Mores-Ittireddu: Pont’Ezzu.

 

Qualche chilometro più ad ovest, al confine fra i territori comunali di It­tireddu e di Mores, un altro ponte romano, di dimensioni decisamente meno imponenti, scavalca lo stesso Rio Mannu in un tratto in cui il fiu­me, che poco più a valle riceve alcu­ni dei suoi principali affluenti, ha una portata d'acqua e un'ampiezza dell'alveo assai più modeste. Lo si può raggiungere dall'abitato di Ittireddu (da Ozieri lungo la statale 128bis per Mores, quindi a sinistra nella provinciale per Bono), imboc­cando una stradina che porta alla chiesa di San Giacomo e seguendo poi le indicazioni per il ponte. La costruzione è realizzata in pietra basaltica e tufo bianco alla base. Delle tre arcate originarie ne resta­no in piedi due, che hanno raggi di lunghezza diversa. L'ubicazione del ponte, pochi chilometri più a sud dell'attuale statale 128bis, ci per­mette di ricostruire ancor meglio il tracciato della diramazione per 0lbia, che evidentemente si staccava dalla "a Turre Karales" quasi in coin­cidenza con lo svincolo attuale.

 

13. Alghero: Necropoli di Santu Pedru.

 

L'ultima tappa dell'itinerario ci ri­porta indietro sia nello spazio (per far ritorno ad Alghero di dove siamo partiti) sia nel tempo, verso quegli "zingari della preistoria" di cui già abbiamo fatto la conoscenza quasi all'inizio del viaggio, nella necropo­li di Su Crucifìssu Mannu presso Por­to Torres. Da Mores raggiungiamo l'innesto della Carlo Felice, ne per­corriamo un breve tratto in direzio­ne di Cagliari, ne usciamo allo svincolo per Thiesi e procediamo lungo la statale 131bis, attraverso Thiesi e Ittiri, fino al bivio della cantoniera di Scala Cavalli: qui ci immettiamo nella statale 127bis in direzione di Alghero e, dopo circa tre chilometri, poche centinaia di metri oltre la pietra miliare del km 24, troviamo sulla destra della strada la necropoli di Santu Pedru, così chiamata per­ché le domus de janas che la com­pongono sono scavate nella base di una collinetta, il Monte Santu Pe­dru, che non arriva ai 100 metri d'altezza.

 

Alghero:

necropoli di Santu Pedru

 

 

 

Fra le numerose tombe presenti nel sito, quella di maggiore interesse, sia in assoluto sia in rap­porto al tema del nostro itinerario, è la tomba I, chiamata anche "Tomba dei vasi tetrapodi" per la grande quantità di materiali ceramici di questo tipo che vi furono rinvenuti (ora esposti al Museo Sanna di Sassari). Questa domus fornì, grazie al­l'abbondanza di reperti e alle condi­zioni di perfetta integrità in cui venne alla luce, la prima sequenza stratigrafica affidabile della preistoria sarda, permettendo tra l'altro di confermare la massiccia presenza, in un periodo databile approssimativa­mente appena a monte del 2000 a.c., di quelle genti del Vaso Campa­niforme di cui si è detto in prece­denza. I dati raccolti a Santu Pedru e in altre necropoli vicine (come quella di Anghelu Ruju, sempre in territorio di Alghero, lungo la stata­le 291 per Sassari) confermano che queste popolazioni furono accolte e assimilate, certo anche grazie alle loro qualità di abili artigiani (vasai e metallurghi), all'interno delle co­munità locali di Cultura Ozieri, tan­to da trovare sepoltura nelle stesse domus de janas, dove i resti di que­sti brachicefali, facilmente distin­guibili da quelli dei dolicocefali di origine mediterranea, si trovano cir­condati dai loro corredi funerari, co­stituiti dagli oggetti che li rendono inconfondibili: il tipico bicchiere a campana, i vasi a tre piedi, il brassard di pietra ed osso utilizzato co­me guardamano dagli arcieri. Dalla necropoli di Santu Pedru, ultima tappa del nostro viaggio fra i popoli venuti dal mare, si rientra da Alghe­ro, lungo la statale 127bis, in una decina di minuti.