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La basilica di Nostra Signora di Luogosanto
L'occasione: l'8 settembre.
La festa settembrina della Natività della Vergine (o di Maria Bambina) si celebra un po' dovunque in Sardegna, quasi in ogni paese e villaggio, dai più popolosi ai più sperduti dell'interno. Una tradizione cosi diffusa e profondamente radicata è certo da mettersi in relazione, oltre che con la solennità religiosa della ricorrenza, con la particolare stagione in cui cade. Il mese di settembre si chiama in sardo Capodanno capidanni in logudorese, cabudanni in campidanese), a testimonianza della sua importanza fondamentale nella società agropastorale del passato, come mese d'apertura o piuttosto di riapertura del Lavoro dei campi dopo la lunga pausa coincidente con la calura e la siccità dell'estate. In settembre, soprattutto nella prima decade, si concentra perciò un gran numero di feste, che ai motivi magico-
La festa di Luogosanto è particolarmente sentita, e frequentata da pellegrini provenienti da ogni parte dell'isola, perché la basilica di Nostra Signora di Luogosanto riveste un'importanza del tutto speciale nelle tradizioni religiose e nella storia stessa della Gallura. La chiesa fu costruita nel XIII secolo in stile tardo-
La porta santa della basilica di Luogosanto viene aperta solennemente ogni sette anni, nel giorno della festa
Oggetto evidentemente già in età medievale di particolare devozione, il santuario si vide assegnare da papa Onorio III, nel 1220 circa, il titolo di basilica, con il privilegio di una porta santa che viene aperta con solenne cerimonia ogni sette anni proprio in occasione della festa dell'8 settembre (restando poi aperta per l'intero anno successivo).
Ben prima della nascita dell'attuale abitato, il sito era noto già in antico con il nome di Locus Santus e l'erezione del santuario è probabilmente da mettersi in relazione con la leggendaria permanenza nei dintorni di due santi anacoreti del VI secolo. San Nicolo e San Trano, al quale ultimo è dedicata una piccola chiesa rupestre, che sorge nei pressi del paese, risalente più o meno alla stessa epoca della basilica.
Nel basso Medioevo, e più ancora all'inizio dell'età moderna, sotto l'incalzare di pestilenze e incursioni barbaresche, la zona partecipò del generale spopolamento di cui fu vittima l'intera Gallura costiera (Luogosanto non dista più di venti chilometri dal mare di Vignola e di venticinque da quello di Palau) nel periodo della dominazione spagnola. Tuttavia l'edificio di culto non fu mai abbandonato: meta di devoti pellegrinaggi anche nei secoli di più grave declino della regione, rimase per cosi dire a presidio del territorio. Così, nel primo Ottocento, secondo un modello assolutamente tipico dei centri abitati moderni della Gallura, intorno alla basilica cominciò a raccogliersi qualche sparso gruppo di pastori transumanti che, a poco a poco, trasformarono il loro insediamento da stagionale in stanziale, dando vita all'attuale paese.
Le produzioni tradizionali della zona.
Terra di economia pastorale fin dall'età preistorica, l'Alta Gallura è una regione di solide tradizioni per quanto concerne le lavorazioni artigianali e i prodotti agroalimentari, mentre d'altra parte il turismo ha attratto nei comuni costieri grandi empori di vendita dei prodotti tipici dell'entroterra.
Come si può facilmente rilevare a una semplice escursione nell'interno, i rilievi granitici che costituiscono il carattere morfologico più appariscente della Gallura sono rivestiti per centinaia di ettari da immense foreste di querce da sughero.
La quercia da sughero è un elemento fondamentale del paesaggio e dell'economia della Gallura interna
Questo materiale leggerissimo, duttile, impermeabile e dalle proprietà isolanti ben conosciute e apprezzate da secoli costituisce una delle principali risorse economiche della regione: in particolare l'area che ha come epicentro il territorio di Calangianus (autentica capitale italiana del settore dove, nel mese di settembre, si svolge anche un'importante Biennale del sughero) costituisce un vero e proprio distretto industriale ad alta produttività. La produzione industriale da una parte e la domanda turistica dall'altra hanno profondamente trasformato questo settore dell'artigianato locale: nella tradizione gallurese, specie in quella delle famiglie più povere, il sughero è stato per secoli, grazie alla sua pressoché illimitata disponibilità, un ottimo sostituto del legno, utilizzato per fabbricare non soltanto alcuni utensili domestici ma addirittura vari elementi del mobilio (sgabelli, sedie, perfino letti). Oggi la produzione riguarda in massima parte tappi riservati all'imbottigliamento del vino e, in parte minore, prodotti isolanti per l'edilizia, ma sopravvive un settore artigianale che riesce, con notevole inventiva e perizia, a ricavare dal sughero oggetti di ogni genere, rispondendo a una domanda creata dallo sviluppo turistico delle zone costiere e interessata, più che ai caratteristici utensili di antica tradizione pastorale (vassoi, mestoli, recipienti e sgabelli), all'oggettistica d'arredamento (come portapenne e portacenere) e a souvenirs come cofanetti, bottiglie, agende, cartoline, copertine, cartelle, ottenuti con la cosiddetta "carta sughero". Nei laboratori di Calangianus è anche possibile osservare, su richiesta, le diverse fasi della lavorazione (bollitura, taglio, scelta e imballaggio).
Un tempo praticata in tutta la regione, l'arte della tessitura sopravvive oggi in pochi centri, come Viddalba e soprattutto Aggius, dove ogni anno nel periodo estivo si tiene una frequentata Mostra dei tappeti. La tecnica praticata dalle tessitrici aggesi è una delle più antiche e meno diffuse: la cosiddetta un'in dente, dove in ciascuno dei denti del pettine viene fatto passare un unico filo di ordito. Nella loro versione più tradizionale, i tappeti di Aggius sono caratterizzati più dai giochi cromatici che non dai motivi ornamentali geometrici o figurati: i disegni più ricorrenti sono lo spigato bicolore (con giochi di chiaroscuro) e l'alternanza di larghe strisce di colori diversi (dal bianco al giallo vivo, dal rosso al marrone bruciato). A Viddalba, paese ai confini occidentali della Gallura, lungo il basso corso del Coghinas, tradizionalmente attratto dalla vicina Anglona, si pratica come a Castelsardo l'arte dell'intreccio, con la produzione di cesti e cestini particolarmente apprezzati perché realizzati con la fibra della palma nana, che caratterizza la macchia mediterranea della zona.
L'estrazione e la lavorazione del granito sono praticate soprattutto a Luras, centro famoso per i suoi esperti e abilissimi scalpellini, eredi di una tradizione molto antica.
Tempio Pausania è una cittadina dalle solide tradizioni orafe: ma oggi molti artigiani si sono insediati nei centri turistici del litorale, come Arzachena (Porto Cervo), Palau e Santa Teresa Gallura, dove esistono anche laboratori che producono oggetti di corallo.
Ai confini fra produzione artigianale e industriale si collocano infine le numerose ditte di Olbia e Arzachena che producono piatti, vasellame e altri manufatti di ceramica, con marchi anche molto noti a livello nazionale e internazionale.
Importante in tutta la Gallura è la produzione di vino. Tempio e Monti sono con Berchidda i soli centri di produzione del Vermentino di Gallura che, classificato fra i primi quattro bianchi italiani, ha ottenuto il più alto riconoscimento: la Denominazione di Origine Controllata Garantita. Ma fra i vini prodotti a Tempio il principe è senz'altro il Moscato, che si differenzia dagli altri della Sardegna per il suo classico aroma delicato e il gusto genuino, determinati da un diverso procedimento di vinificazione. A Olbia la produzione si è invece specializzata in vitigni innovativi, non tipici della Sardegna, come Pinot Chardonnay (bianco) e Cabernet (rosso), che acquistano dalle particolari condizioni ambientali sapori sorprendenti. Analogo il caso del Nebbiolo prodotto a Luras e a Tempio. Dalla zona di Arzachena proviene invece uno dei Vermentini di Sardegna più pregiati: il Capichera. Eccellente anche il Vermentino di Telti, centro che è tuttavia particolarmente rinomato per la produzione artigianale del liquore di mirto, ben difficile da gustare se non si ha la ventura di essere invitati in una casa privata o di trovarsi a Telti nell'ultimo fine settimana di agosto, in occasione della Sagra del mirto.
La Gallura è forse La regione del Nord Sardegna dove la tradizione della pasta fatta in casa è più solida e fantasiosa. Qui si possono trovare un po' dovunque i classici malloreddus, gnocchetti di semola da condire con sugo di carne di pecora e formaggio pecorino, e i ravioli, piccoli quadrati di pasta all'uovo con un ripieno di ricotta o formaggio fresco, uova, sale ed erbe aromatiche. Ad Arzachena esiste anche una versione dolce dei ravioli, detti pulligioni dulci. Sempre ad Arzachena si possono trovare i maccarones de busa, originari della Barbagia (dove si chiamano anche maccarones de ferrittu, perché la pasta viene avvolta intorno a un ferro da calza), a base di semola, simili ai bucatini ma più lunghi e grossi.
Raffinatissima la pasticceria, che si avvale anche di una delle produzioni di miele più rinomate della Sardegna, con varietà dagli aromi insoliti come il miele alla lavanda (Sant'Antonio di Gallura), all'eucalipto (Calangianus), al corbezzolo (Berchiddeddu, frazione di Olbia, Padru, Loiri-
Fra i piatti tipici primeggia la zuppa gallurese, che si può trovare facilmente in molti ristoranti della regione e anche in altre zone della Sardegna, pur essendo originaria della Gallura intema e in particolare di Calangianus. Si presenta con l'aspetto di una pasta al forno, ma si tratta in realtà di pane raffermo tagliato a fette, bagnato con brodo di carne e con molto formaggio fresco, e poi passato in forno in una teglia foderata di lardo. Gli ingredienti possono differire nella loro varietà da zona a zona e quasi da mano a mano: il brodo può essere di carne bovina o suina, il formaggio di latte vaccino o pecorino. Questo piatto gustosissimo viene proposto anche con il suo nome dialettale di zuppa cuata, che letteralmente significa nascosta (forse perché la crosta formata dalla cottura al forno nasconde la vera natura della composizione): tuttavia secondo taluni dovrebbe chiamarsi zuppa cojuata, cioè "sposata", perché tradizionalmente preparata per i pranzi di nozze.