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Distanza complessiva da percorrere circa 435 Km
Tempo medio di percorrenza circa 9 ore
Percorsi a piedi circa 30 minuti
Percorsi in traghetto circa 90 minuti
Tempi di sosta e visita circa 8 ore
Durata complessiva dell'itinerario Due giornate
6. Trinità d'Agultu e Vignola: Torre spagnola dell'Isola Rossa.
7. Santa Teresa Gallura: Cave romane di Capo Testa.
8. La Maddalena: Museo archeologico navale Nino Lamboglia.
9. Olbia: Mura puniche.
10. Olbia: Fattoria romana di S'Imbalconadu.
11. Ozieri: Pont’Ezzu.
12. Mores-
13. Alghero: Necropoli di Santu Pedru.
6. Trinità d'Agultu e Vignola: Torre spagnola dell'Isola Rossa.
Da un popolo conquistatore ad un altro, ci spostiamo adesso con un balzo in avanti di oltre un millennio lungo la strada costiera, da Porto Torres a Castelsardo e di qui, lambendo i lunghi arenili di Valledoria e Badesi, fino al Borgo dell'Isola Rossa, per visitare una delle più robuste testimonianze del dominio politico-
Ma questo spiega anche la presenza, in questo tratto di costa solitario e selvaggio, battuto dai venti, di una torre di tale imponenza architettonica, per non dire monumentale. Di torri aragonesi e spagnole è punteggiato l'intero litorale della Sardegna e un itinerario che volesse toccarle tutte, l'una dopo l'altra, risulterebbe lungo e faticoso ma certamente spettacolare come pochi, perché permetterebbe di prendere visione di ogni centimetro di costa, di ogni scoglio e di ogni increspatura del mare. Infatti questo sistema di torri (integrato da quelle preesistenti, di costruzione genovese e pisana) era concepito in modo che l'angolo ottico di ciascuna si sovrapponesse in parte a quello delle due contigue, con le quali del resto la torre era in diretta relazione visiva. Cosi non c'era tratto di mare che potesse sottrarsi al controllo (come accade invece oggi in certe zone d'ombra dei radar) e la guardia che avvistava una nave sospetta poteva comunicare la notizia con un semplice gesto alle due guardie delle torri vicine, e ciascuna di queste due ad un'altra, con una fulminea propagazione dell'allarme. Questa torre dell'Isola Rossa, in particolare, appare più maestosa e di architettura più accurata di altre perché il piccolo porto naturale del quale sta a vedetta aveva un'importanza strategica non ordinaria: era infatti (ed è tuttora) uno dei pochi approdi agevoli su un arco di svariate decine di miglia e per questa ragione era il punto di sbarco prediletto da pirati e contrabbandieri. Soprattutto contro le attività di questi ultimi, che prosperavano sui traffici dalla vicina Corsica, fu eretta e fortificata la torre: a difesa, si potrebbe ben dire, più che del territorio sardo, dell'erario spagnolo.
7. Santa Teresa Gallura: Cave romane di Capo Testa.
Torniamo adesso ai Romani e, proseguendo per la strada Litoranea il cui tracciato corrisponde in gran parte a quello della via da Turris a Olbia di età imperiale, ci trasferiamo dall'Isola Rossa a Santa Teresa, il cui sito potrebbe forse coincidere, come già si è detto, con quello della romana Tibula.
In ogni caso i Romani ebbero insediamenti e interessi in questa zona, in particolar modo a Capo Testa, spettacolare promontorio dalla forma tondeggiante collegato alla terraferma da un istmo sottile, e celebre per le sue biancheggianti rocce di granito, ora svettanti in aspri pinnacoli aguzzi ora invece ammassate l'una all'altra in lisce sculture marmoree. Fu appunto questo magnifico marmo ad attrarre a Capo Testa i Romani, che vi ebbero importanti cave di granito, certamente attive per molti secoli.
Nella parte nord-
Santa Teresa Gallura: le cave romane di Capo Testa
Si possono vedere grandi blocchi appena staccati, colonne semilavorate ed anche elementi architettonici già lavorati sul posto prima di essere esportati. In località Li Petri Taddati (cioè "le pietre tagliate") è documentato su una roccia il procedimento adottato per l'estrazione: lungo la linea di frattura della pietra si praticavano piccoli fori nei quali venivano inseriti cunei di metallo o di legno. Le cave furono riutilizzate in età medievale, nel periodo della dominazione pisana, e fornirono materiali per la costruzione del Battistero e del Duomo di Pisa. La leggenda vuole che il granito di Capo Testa sia servito anche, in età romana, per le colonne del Pantheon.
Si tratta appunto di una leggenda, forse falsa, ma sicuramente non priva di fondamento: il marmo estratto qui veniva trasportato a Roma e si trasformò senza dubbio in palazzi, terme, templi. Scogli che, dall'altra parte del mare, diventavano edifìci.
8. La Maddalena: Museo archeologico navale Nino Lamboglia.
Sempre sulle tracce dei Romani, lasciamo Santa Teresa per la vicina Palau e di qui ci imbarchiamo sul traghetto che, solcando uno dei tratti di mare più belli del Mediterraneo, ci conduce all'Isola della Maddalena. Un mare stupendo, quello dell'arcipelago, ma anche insidioso: per la forza e il capriccio dei venti, per l'ardua navigabilità degli stretti canali che separano un'isola dall'altra, per le innumerevoli secche di cui è disseminato. Non si contano i naufragi che sono avvenuti in queste acque dalla trasparenza di vetro. Di uno di questi naufragi reca una testimonianza davvero suggestiva il museo intitolato a Nino Lamboglia, uno dei pionieri dell'archeologia subacquea nel nostro paese.
La Maddalena: in una sala del Museo archeologico navale Nino Lamboglia è ricostruito lo stivaggio delle anfore vinarie nella nave da carico romana naufragata al largo dell'isola di Spargi nel II secolo a.C.
Il museo è infatti incentrato sul relitto di una nave romana naufragata verso il 120 a.C. presso risola di Spargi e recuperato una ventina d'anni fa. Nella prima sala è stato ricostruito un settore dello scafo, al cui interno sono state disposte, secondo il metodo di stivaggio dei Romani, le numerose anfore vinarie recuperate. Nella seconda sala sono esposti gli oggetti ritrovati a bordo, tra cui uno scandaglio e cinque ancore di piombo. Dunque già in epoca tardo-
9. Olbia: Mura puniche.
Lasciamo La Maddalena e, fatto ritorno a Palau, raggiungiamo Olbia (strada statale 125, passando per Arzachena) per fare la conoscenza dell'ultimo grande popolo forestiero di cui non abbiamo ancora individuato le tracce. Olbia, a dispetto dell'etimologia probabilmente greca del nome (Olbìa: la felice) e della tradizione che la vuole fondata dai Focesi, cioè dai coloni greci dell'attuale Marsiglia, è una città portuale che deve la sua originaria struttura urbana alla fondazione punica nel IV secolo a.C. (anche se va ricordato che recenti scavi hanno restituito ceramiche greco-
10. Olbia: Fattoria romana di S'Imbalconadu.
Dopo la conquista romana, la città di Olbia prosperò per svariati secoli non soltanto grazie ai traffici del porto, ma anche grazie alla fertilità della sua campagna, subito alle spalle della costa. Qui come in tutte le pianure piccole e grandi dell'isola (nel Nord Sardegna la Nurra, il Campo di Ozieri, il Campu Giavesu, vaste aree della Romangia e dell'Anglona) i Romani organizzarono un'agricoltura intensiva mirante soprattutto alla produzione di grano e, nelle zone collinari, di vino. Grazie a un sapiente governo delle acque, in effetti, queste regioni, fertili e irrigue ma nella maggior parte dei casi malariche, conobbero nei secoli della dominazione romana una prosperità e una popolosità inusitate: basti pensare che Olbia e tutto il suo territorio, immediatamente dopo la caduta dell'impero, andarono incontro a uno spopolamento totale, destinato a durare per oltre un millennio. In linea generale non è azzardato affermare che tutte le terre malariche della Sardegna, prima delle grandi bonifiche del XX secolo, furono coltivate e rese abitabili in modo stabile esclusivamente sotto il dominio romano. Qui in particolare, nella zona di Olbia, si insediarono in età imperiale i grandi latifondi delle più potenti famiglie di Roma: segno esplicito più di ogni altro dell'elevata redditività delle terre. Un esempio piuttosto precoce di fattoria romana, risalente al II secolo a.C. (dunque ancora all'età repubblicana), è venuto recentemente alla luce pochi chilometri a sud di Olbia, lungo la strada provinciale per Loiri: è visibile (e visitabile) sul margine destro della strada, subito dopo il ponte sul fiume Padrogiano. Il complesso produttivo, ubicato sulla sommità di una lieve altura, a 12 metri sul livello del mare, è realizzato in pietre granitiche legate con malta di fango, sulle quali si impostano gli alzati in mattoni. Della struttura, la cui lunghezza originaria era di oltre 30 metri, si conserva un'ampia corte che racchiude un isolato di quasi 9 metri di lato, forse una casa-
11. Ozieri: Pont’Ezzu.
Se, dalla provinciale per Loiri, risaliamo qualche chilometro a nord per imboccare la statale 199 e ne percorriamo un lungo tratto in direzione di Oschiri e Ozieri, potremo dire di aver seguito per alcune decine di miglia il tracciato di un'altra strada romana di vitale importanza. Si è già visto infatti, all'inizio del nostro itinerario, che la principale arteria del sistema viario romano, la "a Turre Karales", si snodava su un tracciato in gran parte simile a quello della Carlo Felice: da questa strada, nei pressi di Mores (probabilmente coincidente con la romana Hafa), più o meno nello stesso punto in cui prende origine l'attuale statale 128bis, si staccava anche allora la diramazione per Olbia che, tagliando da sud-
Questa strada, dunque, ci porta senza alcuna difficoltà nelle immediate vicinanze della prossima tappa dell'itinerario, costituita appunto
Il Pont’Ezzu di Ozieri
Questo nome, Pont'Ezzu, che significa semplicemente "ponte vecchio” connota con estrema sobrietà la maggior parte dei ponti d'impianto romano esistenti nel Nord Sardegna: uno, non lontano di qui, fra Mores e Ittireddu, sarà la prossima tappa del nostro itinerario; un altro (vedi Itinerario 19) scavalca il Tirso proprio al confine fra le Province di Sassari e Nuoro; di un terzo (vedi Itinerario 12) restano i ruderi nei pressi del Coghinas in territorio di Bortigiadas. Quello di Ozieri è, fra tutti, di gran lunga il più imponente e monumentale. Costruito in età imperiale (I-
12. Mores-
Qualche chilometro più ad ovest, al confine fra i territori comunali di Ittireddu e di Mores, un altro ponte romano, di dimensioni decisamente meno imponenti, scavalca lo stesso Rio Mannu in un tratto in cui il fiume, che poco più a valle riceve alcuni dei suoi principali affluenti, ha una portata d'acqua e un'ampiezza dell'alveo assai più modeste. Lo si può raggiungere dall'abitato di Ittireddu (da Ozieri lungo la statale 128bis per Mores, quindi a sinistra nella provinciale per Bono), imboccando una stradina che porta alla chiesa di San Giacomo e seguendo poi le indicazioni per il ponte. La costruzione è realizzata in pietra basaltica e tufo bianco alla base. Delle tre arcate originarie ne restano in piedi due, che hanno raggi di lunghezza diversa. L'ubicazione del ponte, pochi chilometri più a sud dell'attuale statale 128bis, ci permette di ricostruire ancor meglio il tracciato della diramazione per 0lbia, che evidentemente si staccava dalla "a Turre Karales" quasi in coincidenza con lo svincolo attuale.
13. Alghero: Necropoli di Santu Pedru.
L'ultima tappa dell'itinerario ci riporta indietro sia nello spazio (per far ritorno ad Alghero di dove siamo partiti) sia nel tempo, verso quegli "zingari della preistoria" di cui già abbiamo fatto la conoscenza quasi all'inizio del viaggio, nella necropoli di Su Crucifìssu Mannu presso Porto Torres. Da Mores raggiungiamo l'innesto della Carlo Felice, ne percorriamo un breve tratto in direzione di Cagliari, ne usciamo allo svincolo per Thiesi e procediamo lungo la statale 131bis, attraverso Thiesi e Ittiri, fino al bivio della cantoniera di Scala Cavalli: qui ci immettiamo nella statale 127bis in direzione di Alghero e, dopo circa tre chilometri, poche centinaia di metri oltre la pietra miliare del km 24, troviamo sulla destra della
Alghero: necropoli di Santu Pedru
Fra le numerose tombe presenti nel sito, quella di maggiore interesse, sia in assoluto sia in rapporto al tema del nostro itinerario, è la tomba I, chiamata anche "Tomba dei vasi tetrapodi" per la grande quantità di materiali ceramici di questo tipo che vi furono rinvenuti (ora esposti al Museo Sanna di Sassari). Questa domus fornì, grazie all'abbondanza di reperti e alle condizioni di perfetta integrità in cui venne alla luce, la prima sequenza stratigrafica affidabile della preistoria sarda, permettendo tra l'altro di confermare la massiccia presenza, in un periodo databile approssimativamente appena a monte del 2000 a.C., di quelle genti del Vaso Campaniforme di cui si è detto in precedenza. I dati raccolti a Santu Pedru e in altre necropoli vicine (come quella di Anghelu Ruju, sempre in territorio di Alghero, lungo la statale 291 per Sassari) confermano che queste popolazioni furono accolte e assimilate, certo anche grazie alle loro qualità di abili artigiani (vasai e metallurghi), all'interno delle comunità locali di Cultura Ozieri, tanto da trovare sepoltura nelle stesse domus de janas, dove i resti di questi brachicefali, facilmente distinguibili da quelli dei dolicocefali di origine mediterranea, si trovano circondati dai loro corredi funerari, costituiti dagli oggetti che li rendono inconfondibili: il tipico bicchiere a campana, i vasi a tre piedi, il brassard di pietra ed osso utilizzato come guardamano dagli arcieri. Dalla necropoli di Santu Pedru, ultima tappa del nostro viaggio fra i popoli venuti dal mare, si rientra da Alghero, lungo la statale 127bis, in una decina di minuti.